biografia


Simona Weller: Biografia ragionata

Simona Weller nasce il 10 maggio 1940 a Roma, da Alfredo e Giuseppina Sales. Nel 1948 perde il padre e nel 1949 entra nel Convitto Nazionale di Spoleto dove studierà dalla quinta elementare al quinto ginnasio.
A Spoleto, frequentando le scuole medie (nel palazzo dove attualmente è la Galleria Civica d'Arte Moderna) ha come insegnante di disegno Leoncillo Leonardi, che incoraggerà il suo precoce talento. Terminato il Liceo Classico a Roma, si iscrive agli esami di ammissione per entrare all'Accademia di Belle Arti dove avrà come docenti Ferruccio Ferrazzi, Mario Mafai e Mino Maccari.

L'Accademia le serve per impadronirsi del mestiere: dal modellare la creta ad incidere lastre all'acquaforte, a studiare le tecniche pittoriche della grande tradizione italiana. Le serve per disegnare tutti i giorni dal vero e poi per spiccare il volo verso paesi lontani. L'occasione è una borsa di studio UNESCO per un paese dell'Estremo Oriente: il Siam. Per destino o per istinto Simona cerca la sua strada partendo, in anticipo sui giovani che dieci anni dopo avranno il mito dell'India. Come tutti i primi grandi viaggi, anche il suo sarà un viaggio iniziatico.

Simona Weller davanti ad un suo dipinto

In questo periodo sogna e vive come un giovane esploratore dei tempi di Rimbaud e di Verlaine. Non ha ancora messo a fuoco il fatto di essere una donna. E una pioniera.
Naturalmente ciò che più la colpisce in Oriente sono le insegne dalla scrittura indecifrabile. Caratteri cuneiformi e ideogrammi di cui intuisce la segreta armonia (e la registra come qualcosa che le potrà venire utile un giorno). Nell'Asia del 1960 tutto le appare meraviglioso: mare, fiumi, risaie, giungla, città morte. I vestiti della gente, le stoffe dai colori iridescenti, la pelle delle donne dai riverberi di bronzo, gli odori violenti.
Al ritorno da ognuno dei suoi lunghi viaggi (in Thailandia 1960/'61, in Egitto 1962/'63, in Spagna 1964) Simona frequenta i corsi dell'Accademia di Roma fino alla tesi finale sull'antica pittura egiziana.

Nel 1961 si sposa con Roberto Veller Fornasa con cui avrà due figli: David (1962) e Micol (1964). Sceglie di vivere nella campagna umbra, a Taizzano di Narni, per dipingere e poter allevare più facilmente i figli.

Naturalmente la solitudine, il contatto con la natura e la stessa maternità influenzano profondamente il suo lavoro. La sua pittura si libera dalle scorie accademiche (o folcloristiche dei viaggi) e comincia ad esprimere un mondo autonomo. La tecnica si affina e si scaltrisce. È di questo periodo (1965-1970) l'uso degli smalti e inchiostri su carte preziose. Carte di riso (cinesi o giapponesi) o tele preparate come muri. Su questi supporti compaiono, disegnati con la precisione di un entomologo e colorati con la poesia di un Klee, insetti, reperti fossili, bacche selvatiche.
Ogni volta che Simona esce dal suo ritiro, visita le grandi mostre e riesce a farsi notare da alcuni critici (Menna, Venturoli, Di Genova, Crispolti). Ha già cominciato ad inserire timidamente nei suoi quadri, frasi, versi, scritte ispirate alle iscrizioni latine che si vedono a Roma, tra le rovine. Il suo mondo (surreal-naturalistico lo definiranno i primi critici) è ancora legato al ciclo della vita, alla metamorfosi delle cose che germinano appena sotto, o subito sopra, la terra.
All'inizio del 1970 Simona affronta una sua rivoluzione privata. Separatasi dal marito ritorna a Roma dove comincia ad insegnare discipline pittoriche come assistente di Giulio Turcato. Intanto convive con il poeta e critico Cesare Vivaldi.

Sono gli anni in cui riscopre che anche un quadro può gremirsi di segni, parole, oltre che di colori. All'inizio sono vere e proprie tavole su fondo nero in cui traccia graffiti bianchi o a colori come su una lavagna, dando ampio sfogo non solo all'inconscio, ma anche ai suoi sogni di bambina infelice.
Dalle lavagne la pittrice passa alle pagine di quaderno in cui il segno infantile si alterna all'intervento esterno di un ipotetico maestro. I primi critici a scrivere di questo ciclo sono, oltre a Vivaldi, Enrico Crispolti, Murilo Mendes, Marisa Volpi e Federica Di Castro.
Nel 1973 viene invitata alla X Quadriennale di Roma nella sezione non figurativa. Già aveva esposto nella galleria "Il Punto" di Remo Pastori a Torino e a Calice Ligure, guadagnandosi l'attenzione di importanti collezionisti torinesi. Nel 1974 viene segnalata al Premio Bolaffi da Giuliano Briganti.

Ora le sue opere nere, sorta di trompe-l'oeil di lavagne, si alternano a grandi tele colorate in cui una parola tracciata all'infinito si stratifica a formare una trama o tessitura. Per tracciare la parola chiave (erba, mare, alba, grano ecc.) l'artista usa un pastello ad olio. I colori tengono conto degli accostamenti divisionisti, la trama che ne risulta non è dunque mai una stesura piatta ma, osservata da lontano, crea un effetto di profondità. La Weller ha dunque ottenuto ciò che cercava: definire un paesaggio mentale con una parola dall'apparenza asemantica che coprendo lo spazio della tela si trasforma in quadro.

Pur non appartenendo a nessun gruppo, la Weller potrebbe storicizzarsi nell'area di un astrattismo lirico o meglio di una pittura scritta (e quindi di un informale segnico), si cerca invece di incasellarla forzosamente nella corrente della poesia visiva. Non a caso parteciperà a numerose mostre organizzate da Mirella Bentivoglio per questa tendenza. Questo equivoco verrà ulteriormente ribadito da Nello Ponente che, nella grande mostra del 1980 al Palazzo delle Esposizioni di Roma intitolata "Linee della ricerca artistica degli ultimi venti anni", inserirà la Weller nella sezione della poesia visiva. Per queste mostre Simona userà rigorosamente opere su fondo nero o bianco evitando ogni pittoricismo inviso ai poeti visivi.

Ma questa inserzione forzata creerà molto disagio all'artista che non vi si riconosce, anche perché non potrebbe mai rinunciare al colore. La sua scrittura dipinta, negli anni va trasformandosi tra scolature e cancellature. Finché, dopo uno studio concettuale sull'opera di Seurat, da cui prende, scompone e reinventa particolari tratti da La Grande Jatte, l'artista comincia a lavorare sulla tache. Macchie di colore che cancellano e ritmano la scrittura sottostante. Infatti, mentre all'inizio degli anni Settanta la scrittura si stratificava su se stessa, ora (siamo nel 1978) la scrittura serve da struttura per dare all'opera una solidità di costruzione.
Lorenza Trucchi, invitando nel 1978 la Weller al Palazzo delle Esposizioni di Roma per la manifestazione Arte-Ricerca, le permetterà di chiarire questo procedimento allestendo in una sala sia i particolari tratti da Seurat, dipinti su strisce orizzontali lunghe e strette, sia due grandi opere dedicate al mare: una solare e diurna, l'altra lunare e notturna. La sala si intitola: "Parafrasando Seurat, un pomeriggio di domenica all'isola… Tiberina".

Il messaggio è ironico, ma anche provocatorio per alcuni critici (promotori di una figurazione ad oltranza) che commenteranno: "Capiamo, ma non condividiamo".
Quest'atto di fede nella pittura che subisce colpi bassi dalle ultime tendenze di moda, verrà comunque premiato da un invito, nello stesso anno, alla Biennale di Venezia nella mostra "Dalla pagina allo spazio" che si terrà ai Magazzini del Sale.

Nei primi mesi del 1979, nel suo studio di via Margutta 48 (che ha visto passare tre quarti dell'arte italiana del dopoguerra: da Turcato a Corpora) sta incollando frammenti di vecchie tempere. Ritaglia le strisce della pittura che considera buona e le incolla su alcuni fondi su cui ha scritto, come al solito, erba oppure mare. L'effetto di rilievo e di controluce che ne deriva è talmente interessante che sarà alla base di tutto il lavoro degli anni seguenti.
Questi primi collages vengono presentati lo stesso anno alla rassegna curata da Flavio Caroli e Luciano Caramel dal titolo "Testuale: le parole e le immagini" alla Rotonda della Besana a Milano. Una rassegna che (prima ed ultima) fa il punto sul fenomeno della pittura-scrittura attraverso i secoli.

Gli anni Settanta si chiudono con la prima antologica di Simona Weller al Museo d'Arte Moderna di Macerata nel 1980, dove il direttore Elverio Maurizi la invita e scrive per lei un impegnatissimo saggio.
I primi vent'anni della sua storia artistica hanno visto Simona impegnata su più fronti. Ha pubblicato un saggio fondamentale sulle artiste italiane del Novecento (Il Complesso di Michelangelo - Nuova Foglio Editore, 1976), ha partecipato a collettivi femministi e a mostre internazionali di artiste.
Nella primavera del 1976 soggiorna qualche mese a New York dove frequenta alcuni artisti di varie tendenze come Marcia Hafif, Robert Morris, Simone Forti. A New York incontra anche il gallerista Leo Castelli che apprezzando il suo lavoro le consiglia di fermarsi a Soho, affittare un loft ed entrare a far parte della scuola newyorchese. Per questo esaltante futuro, Simona avrebbe dovuto abbandonare l'Italia, due figli decenni, un compagno amato, una cattedra di pittura, e la cultura di appartenenza.

La breve esperienza statunitense le conferma di aver imboccato la strada giusta e ne consolida l'identità. È durante questo decennio che ha incontrato e fatto amicizia con i grandi vecchi dell'arte italiana: da Giuseppe Capogrossi a Emilio Scanavino, da Giorgio De Chirico a Nino Corpora, da Giulio Turcato a Toti Scialoja, Alberto Burri, Afro Basaldella, Mauro Reggiani. Per scrivere il saggio "Il Complesso di Michelangelo" ha incontrato anche Edita Broglio e Antonietta Raphaël, Carla Accardi, Titina Maselli, Adriana Pincherle, le sorelle Levi Montalcini e tante altre. Inoltre ogni anno, tra il '70 e l'80, da giugno a settembre, lavora in Liguria nel triangolo Finale Ligure-Calice-Albisola, dove tra gli altri incontra Andy Warhol, impegnato a scrivere la propria autobiografia mentre è ospite della gallerista svizzera Janneret.
Nel fervore delle estati liguri Simona comincia a lavorare la ceramica ed espone anche ad una mostra internazionale a Villa Faraggiana ad Albisola. Completerà le sue ricerche sulla ceramica lavorando, fino ad oggi, periodicamente nella fabbrica l'Antica di Alviero Moretti a Deruta.
Abbiamo già detto che la Weller aveva studiato Seurat, successivamente passa allo studio dello spazio cubista. Da Braque, Picasso, Severini, isola alcuni particolari che fonde con frammenti del proprio vissuto e con reperti dei suoi vecchi quadri.

1986 - Nello studio di Colle Nibbio mentre termina l'opera "Plenilunio"

Da queste composizioni nascono una serie di grandi pannelli su carta da scenografia che esprimono la suggestione di un'avanguardia storica ben assimilata e reinventata. Anche i titoli sono ispirati agli scritti di Gertrude Stein (vedi "Ode alle ciglia di una signora") mentre il testo critico verrà scritto con impegno da Palma Bucarelli e tradotto in olandese e tedesco per una mostra itinerante da Roma a Ferrara, da Amsterdam a Berlino, che avrà per titolo una citazione della Stein, "Il segno è l'esemplare parlato".

Anche in questo ciclo, comunque, compaiono composizioni su fondo nero che ricordano le sue prime lavagne.
L'invito alla Quadriennale del 1986, permette alla Weller un'ulteriore scatto in avanti. Il suo segno, o frammenti del medesimo, si trasforma in moduli macroscopici con l'apparente andamento di un'onda. In realtà, a ben guardare, questi segni altro non sono che frammenti di parole. Da questo periodo in poi la pittura di Simona subisce una fase fortemente sperimentale con l'uso di materiali diversi, che raggiunge la sua punta più elevata intorno agli anni Novanta. Ecco apparire quadri in rilievo, telai a vista, squarci. Quasi che la tela e ciò che sulla tela è rappresentato subisse l'ingiuria degli elementi: del fuoco, dell'acqua, del vento. Nasce il ciclo di "Allegri naufragi" ispirato a quei celebri versi di Ungaretti che recitano: "E subito riprende il viaggio, dopo il naufragio, il vecchio lupo di mare…". Una frase più che simbolica che rispecchia l'atteggiamento dell'artista verso la propria vita e la propria arte.
La cultura linguistica della Weller, pur restando in rapporto con la tradizione formale del colore (da Seurat a Balla a Dorazio) riesce negli ultimi anni a stupirci con imprevedibili soluzioni espressive, il cui esempio è il ciclo "Lettere di una pittrice italiana a Vincent Van Gogh" in cui per l'ennesima volta l'artista rinnova dall'interno la sua ricerca sulla pittura-scrittura. Per queste opere viene invitata da tre gallerie olandesi per esporre durante le manifestazioni per il 150° anniversario della nascita di Van Gogh.

Nonostante la sua inesausta energia creativa, la vita della Weller ha sopportato eventi molto dolorosi. Nel 1993 muore Roberto Veller Fornasa (con cui si era riconciliata), mentre a Parigi va in scena la sua ultima commedia. Nel 1998 muore anche Cesare Vivaldi (da cui si era separata nel 1982) e nel 2003 muore Giuseppina Sales, la madre.
Negli ultimi dieci anni lascia l'insegnamento e la collaborazione con il mensile Noi Donne (dove ha tenuto per oltre dieci anni una propria rubrica d'arte) per dedicarsi al rilancio della propria attività di scrittrice e di pittrice. Pubblica cinque romanzi e un radiodramma, partecipa a numerose collettive e personali che hanno in "Verba Picta" (la doppia rassegna antologica del 2005 in Liguria) il traguardo più felice.

L'8 marzo del 2006 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, su indicazione del Premio Nobel Rita Levi Montalcini, premia di persona la sua poliedrica attività nel campo della cultura con l'onorificenza di Commendatore.

Nel 2009 vince il concorso per la Medaglia Ufficiale Annuale del V anno di Pontificato di Sua Santità Benedetto XVI, indetto dalla Segreteria di Stato della Città del Vaticano. Coniata dalla Zecca Italiana, Simona Weller ha modellato il rovescio dedicandolo a San Paolo. Il motto paolino Mihi vivere Christus est, che fa da sfondo alla composizione, crea quella texture distintiva della pittura dell’artista.
Il primo a riceverla in dono è stato il presidente americano Barack Obama nel corso della sua visita in Vaticano.