Massimo Bignardi - 2000


Una scrittura per Simona Weller

Non può sfuggire ad uno sguardo che va oltre il puro e semplice riordino cronologico delle esperienze condotte in questi ultimi venti anni da Simona Weller, il suo continuo oscillare fra la tensione narrativa, propria della scrittrice e quella affidata alla natura emotiva della forma-colore.
La prima trova implicazioni più dirette in una prassi da tempo consolidata nella "vicenda" creativa dell'artista romana, vale a dire la scrittura che la fa raffinata ed attenta narratrice, così come segnalano Il complesso di Michelangelo, un libro apparso nel 1976 e i più recenti Ritratto di Angelica e Una rosa nel cuore dedicato, quest'ultimo, all'inquieta figura di Suzanne Valadon sulla scena di Montmartre.

La sua è una narrazione sottoposta al rigore di un'analisi indirizzata sostanzialmente allo sguardo, ossia dalla capacità che "l'occhio interiore" ha di osservare (propria del pittore) criticamente il mondo: è una postazione sollecitata dal "visivo", maggiormente evidente nelle pagine biografiche della Kauffmann. Sono preziosi suggerimenti di un possibile varco verso una suggestione immaginativa che rende la "scrittura" prossima alla grafica. In fondo, percorrendo l'ideale sottesamene tracciato in questa mostra, la forma grafica esplica una sua "convivenza" con la prima e diviene più intensa quando la linea è riassunta nell'iterato segno di un'onda, di una sintesi geometrica, implicante, però, un rimando ad un gioco di pieni e di vuoti, di concavi e di convessi, insomma, senza troppi rinvii metaforici, di un'accolta sensualità profusa nell'ordine naturale. "In pittura - scriveva Kandinskij - la forma grafica, oltre al suo valore autonomo, ne possiede altresì un altro, per così dire relativo, che nasce dalla connessione con la forma cromatica". È, per l'appunto quest'ultima, la chiave che rapporta i due momenti, in pratica fa da collante alle esperienze che Simona Weller ha condotto in questi anni, a partire proprio dai lavori eseguiti a metà degli anni Settanta quando, nell'omologante clima concettuale di matrice statunitense, si faceva largo nella sua pittura la necessità di rileggere il colore, tradotto come forma cromatica, di Van Gogh e di Seurat.

Il percorso di questa mostra ha inizio proprio con le opere suggestionate da Seurat. La grande tela dal titolo Talatta Talatta del 1978 è pienamente esplicativa delle scelte operate dall'artista, evidenziando sia il suo insistere sulle valenze emotive del colore o, meglio ancora, sulle atmosfere simboliste che respirano le tele del pittore francese - per Filiberto Menna il punto d'inizio di quella sua "linea analitica" dell'arte moderna -, sia recuperando il senso di tache, di macchia o anche di tassello, unità di un codice grafico (forma grafica) puntualmente rispecchiato dalla liricità dei titoli. Si pensi ad esempio a quel Caro Seurat, aspettando un pomeriggio di domenica per tornare all'isola… posto come didascalia di un dipinto di grande qualità pittorica, nel quale la Weller sembra osservare Seurat, attraverso la divisionista tela di Balla Elisa al Pincio. A questo importante momento nel quale l'artista trova la sua autentica vena narrativa, appartengono altre opere proposte in questa "selezionata" antologica: si tratta di piccoli dipinti, sollecitati da larvate immagini naturaliste proposte a mo' di dettagli di opere guardate dal repertorio post-impressionista, con tache che diviene filo conduttore, cifra grafica (intesa come disegno o progetto) e cromatica (evidenza simbolica), sulla quale la Weller insiste sino a sgombrare il campo pittorico da qualsiasi riferimento figurale, da possibili referenzialità. È una scelta quest'ultima che connota il desiderio di spingere il dettato pittorico nei registri propri di un'astrazione lirica, in parte già presente in quei lavori ove la scrittura è data come sintesi di segno colore o, anche, articolata attraverso il riordino di strisce di carta sovrapposte. In tal senso si vedano opere quali Controluce di parole, Nessuna onda può il cui impianto formale ritroviamo nei dipinti esposti qualche anno fa a Ravello. Il tentativo sembra essere quello di restituire alla forma cromatica, due valori compositivi: uno assoluto e uno relativo, riprendendo, in piena autonomia, quanto auspicato da Kandinskij. Quello assoluto affiora dagli accordi di colori squillanti, quasi sempre dati puri, ritmando l'andamento luminoso con minimi passaggi di tinte, cioè modellando la superficie e al tempo stesso circoscrivendo il campo di attenzione: vale a dire soffermandosi su alcuni dettagli, in genere particolari, di un'opera. Una scelta questa che è propria del narratore intento a costruire il racconto "incontrando" da vicino i personaggi o gli oggetti. Esso è l'essenza di "stati d'animo", di insorgenze emotive, assunte poi quali testimonianze del nostro incontro con la "realtà": sono, questi, dettati posti come presenze della coscienza. Il valore relativo, anche se guardando gli ultimi lavori della Weller è difficile esemplificarlo, è espresso dalla sagoma-colore: in alcune opere, quali i due ovali eseguiti appositamente per questa mostra, la partitura geometrica della sagoma è espressione di una temporanea verifica del dettato immaginativo. Quest'ultimo sembra essere sollecitato da un interesse di matrice naturalistica che induce l'artista a schematizzare il movimento simmetrico delle onde del mare, la sua instabilità, fermata e resa in sintesi dal rimando continuo di una sagoma o mo' di "falce" lunare, desunta o ispirata da quella grande tela titolata C'è una casa e l'amore, i figli e il fuoco, gli amici…, la cui riproduzione chiude il catalogo dell'antologica organizzata a Narni nell'autunno del 1989. È una postazione provvisoria, certamente ancorata da un ritrovato desiderio di scrutare il territorio del visibile, indirizzando, nella partitura geometrica, le sollecitazioni già offerte da alcuni lavori datati sul finire del decennio Settanta, penso, cioè, ad opere quali Socchiudi gli occhi e guarda… la cui immagine, interpretata da un segno-scrittura di lontana memoria vangoghiana, evoca il vento delle passioni. Sono le stesse che animano le pagine dedicate alla Kauffmann, dalle quali affiora un tenue profilo autobiografico: vale a dire un racconto che segue la trama e l'intreccio di "storie" per certi versi vicine, ove ritornano passioni che hanno animato il desiderio dello sguardo ad andare oltre la retina.

Salerno, Dicembre 2000