Marisa Vescovo - 1978


Il segni-simbolo di Simona Weller

Dopo le grandi invenzioni delle avanguardie storiche è necessario trovare l'umiltà di "scoprire" - riducendo l'enfasi e la comunicabilità entro gli scarti minimi delle odierne grammatiche pittoriche o situazionali - e riflettere sugli strumenti linguistici impegnati, e sui loro momenti costitutivi. La donna artista, in particolare, sente l'imperativo di ri-trovare un suo rapporto "diverso" con il "sociale", che sia anche un modo di dare un ordine mentale al gesto, alla materia, allo spazio da esperire. Analizzare il sistema dell'arte vuol dire anche: accettare il colore come membrana osmotica che afferma l'autonomia e la concretezza del "tutto": costituito contemporaneamente dall'oggetto e dalla sua superficie, dalla materia e dalla cromia, che occupano e si integrano nello spazio, sottolineare le regole organizzative degli elementi di base, cioè le unità linguistiche elementari, per spostare l'analisi dell'opera al sistema dell'opera, che dovrebbe essere recepita nel duplice aspetto di natura e di cultura. D'altra parte siamo sempre più consapevoli, con Cassirer, di vivere all'interno di un processo di simbolizzazione sempre più infettivo, il nostro è ormai un universo di segni-simboli, in cui ogni forma, vocabolo, o gesto, si esemplifica lasciando intuire, al di sotto e al di sopra del proprio percorso, un referente che convenziona un comportamento che va "oltre" l'opera. Il simbolo sta a chiarificare la volontà di conoscenza delle cose, ci indica un luogo, un evento, un percorso, il tracciato spaziale dei nostri incontri quotidiani di fronte ai quali oggi si determina il fenomeno di un'apparente indifferenza, o mozione affettiva-repulsiva.

Queste le ragioni di fondo per cui crediamo che Simona Weller tenda oggi a svelare per frammenti, con la massima concentrazione e con il minimo intervento, le inattese stratificazioni delle immagini depositate nel proprio "profondo", in cui le pulsioni si coniugano al "femminile", questo diventa il recupero di un discorso affermativo, ma anche un modo segnatamente dialettico di accettare la realtà, di ri-segnarla come emergente da uno scarto, non risolto, fra segni non omogenei (qualcuno direbbe volatili) e contraddittori. E certo un ingresso, o un ritorno, non sappiamo, nella materialità del colore, nei ricordi, nei sogni colti al loro sorgere, nei simboli di una pagata ma feconda naturalità, che non hanno bisogno di essere interpretati bensì rappresentati, per non negare ancora una volta la propria storia greve di silenzi, di cancellazioni, di censure, e di assurde e alienanti rimozioni.

Ci sembra di cogliere, in queste ultime opere della Weller, una evidente e calamitante necessità di precisare elementi presenti nel lavoro passato e di andare "oltre", di vivere e meditare la percezione come una situazione al limite, per cui il segno percorre la tela con minute partiture, con impuntature, orditure, tessiture, continue-discontinue, che ci lasciano intravedere una protratta esplosione del precedente nucleo di scrittura, che si dissemina e procede in un percorso orizzontale spalancato verso l'abisso di una frantumazione alchemica, in grado di riconoscersi in un segno abbreviato, vibratile, pittorico-grafico. Si tratta di un "fare" che si colloca fra l'impulso diaristico alla scrittura (fisiologia del segno) e un segno denso di vibrazione cromatica, non però astratto o autonomo, che si incontrano fra il piano dell'esperienza e quello dell'analogico. Incrocio decisivo in questa fase di lavoro sulla carta e sui velluti. Infatti si nota subito come il "segno", impiegato per controllare lo spazio - narra, come sempre, un itinerario - è sentito quale elemento misurabile, immediato, elementare, ugualmente ossessivo e liberatorio, emozione ed innocente avventura dell'infanzia, spessore d'intellettualità oltre che di visibilità. Si vuole dunque trovare un modo per sistematizzare l'idea del vuoto fra i pieni e viceversa. Il segno si avvale della meccanica della ripetizione non come gesto chiuso, ma come tensione variabile che si snoda a seconda dei comportamenti emotivi e razionali. Viene così lucidamente evidenziata la prassi percettiva di un'operazione che punta le sue frecce sui valori assoluti e simbolici che stanno prevalentemente sopra sotto il tono, la luce, il colore, in un gioco ottico procedente verso l'intensivo e dinamico riempirsi di uno spazio sul quale si vanno allineando una "serie" aperte di punti-tache che mimano il continuum del "vissuto" quotidiano. L'operazione iterata di questo "dripping", mentale e controllato, non tiene del tutto conto dei limiti della superficie e si proietta verso l'esterno alla ricerca di un rapporto tra l'opera stessa e gli avvenimenti spaziali circostanti. La carta, o il velluto, non preparati, accolgono il più semplice dei segnali, il punto-linea, di cui si evidenziano le pulsioni minime, gli impercettibili livelli di sensibilità, come risultante di un'operazione il cui segno e concetto tendono a coincidere diventando il recinto dell'inconscio profondo, della memoria più remota, in cui esitazione e consapevolezza si accavallano in una simultaneità, o "durata" bergsoniana, che è durata del presente e proiezione nel futuro.

Il segno invade ora lo spazio per indicare come il tempo della continuità, non sia solo una traccia rettilinea in progresso verso una meta, ma implichi invece ripetizioni, slittamenti, continue rotture, in una bidimensionalità soffice e spessa. Tutto va verso una trasformazione-variabilità, più ricca, complessa, dilatata, di quanto sia una struttura progettata, e perciò distante da un'etichetta noiosa come quella ottica.
Il punto, che procede come una serie senza fine, non si dà come una traccia di un gesto chiuso, o pragmaticamente imposto, ma come registrazione di "vissuto" e di "rimosso" aperti verso il "dopo". Se le chiavi per decodificare il messaggio non vengono offerte, è dovuto al fatto che si tratta di un segnale, o di un sintomo, di qualcosa che sta avvenendo o si sta consumando, nel "divenire" del relativo - che è poi il solo assoluto che ci resta - come possibilità di essere nel qui ed ora.
L'automaticità istintiva del gesto - e il gesto è un mezzo con qualità intrinseche, soprattutto organiche, in contiguità con il profondo - attinge ad una cultura umanistica le cui radici si spingono sotto una tradizione italiana che va dal tono al timbrico, e modellandosi nei gorghi del linguaggio viene restituita come un percorso segnico-visivo capace di cogliere il respiro del mare, dell'acqua, della solarità, della luce limpida di un mattino in campagna.

La natura così accennata viene scomposta nei suoi elementi più semplici, per ricreare una sintassi che sta alle origini della pittura semantica, cadenzata però su ritmi che trovano magari una eco in quelli musivi che percorrono le pareti delle basiliche ravennati. Gli impulsi di colore risultano sempre legati alla scrittura, ai segni messi in campo, mentre il ricorrere dei bianchi rafforza come luce i centri nevralgici della tessitura vibratile. La luminosità si apre misteriosamente sul nero opaco del fondo permeato di materia. Le forme minime che ne nascono, misure coordinate tra la mano che traccia e l'occhio che guida, non stanno più nello spazio, ma sono lo spazio, rappresentano l'ultima frontiera dell'illusionismo della pittura moderna. Il "punto"diventa quindi "quantità cromatica" in grado di suggerire tattilmente il "continuo", e di concretare il pieno e il vuoto di coscienza che vi stanno dietro. Coscienza non da intendere come opposto di inconscio, ma come coscienza di vivere il conscio e l'inconscio contemporaneamente, come realtà recepita in condizione di blow-up visivo.

Questi ultimi rotoli di pittura della Weller sono opere capaci d'incarnarsi tanto nella materialità stessa della cromia, quanto nel suo processo nel tempo, e quindi capaci di esprimere le contraddizioni del "dipingere", della sua prassi significante, della sua storia, che oggi più che mai ci portano al cospetto delle pulsioni che ci vengono dalle strutture profonde. L'artista, pur non lasciandosi sopraffare dai suoi fantasmi privati, si carica di una certa notturnità dell'immaginario, che lascia intravedere la corsa verso l'alto dei simboli - ad esempio: il mare-onda, elemento liquido, generatore di vita, quindi femminile - tipica dell'ambito europeo, ponendoli così come elemento linguistico che narra se stesso nell'ambiguità sorvegliata della metafora, a cui dobbiamo, non solo la persistenza del ricordo, ma una sua ancora intatta finalità liberatoria.

Roma, Gennaio 1978