Simona Weller: i segreti della natura e della materia
Benché in questa situazione estremamente libera delle arti quanto a tecniche, non sia più determinante come qualche lustro fa il peculiare modo di dipingere, dirò che la pittura di Simona Weller va prima di tutto presentata sotto il profilo della tecnica: non è opera grafica essenzialmente, perché l'artista adopera pastelli, olii e smalti in una dosatissima cromia, non è pittura - almeno nel modo di un pennellare appoggiato sulle tele, con una stratificazione più o meno uniforme - perché il preciso incapsulare delle forme in segni di capello sul bianco candente è, se mai, peculiarità della puntasecca; non è acquaforte, non solo e non tanto perché ogni opera della Weller è irripetibile, pezzo unico di queste stampe mentite, ma perché il fascino delle sue carte o mappe di natura è dato piuttosto dall'emergenza di un colore, che dall'inventario di un segno, in ogni modo colore e segno si integrano nei suoi lavori, fanno opera a sé.
Già nelle precedenti mostre della Weller, chi scrive, Filiberto Menna ed altri hanno posto in rilievo la partenza autonoma (e un po' controcorrente) dell'artista, la quale avvalendosi di forme neo-liberty, contesta l'irrazionale informale, ma anziché piegare in una via decorativa, medita sulla natura vivente e agreste, archeologica, fossile, con lenticolare fantasia. La scelta degli argomenti, il clima perpetuamente allarmato e pungente dell'accozzo delle cose fra loro e di esse con l'habitat in cui crescono si articolano, si legano, deflagrano, non è letteraria o di comodo: si avverte in ogni dettaglio del suo mondo un aggancio diretto al modello e al suo ambiente, quella piattaforma di naturalezza sulle cose dipinte che hanno soltanto gli artisti che vivono perpetuamente con queste cose; ed è il caso della Weller, che si gode il ciclo intiero delle stagioni in una casa in campagna, che ha modo di operare quotidiane ricognizioni in un paesaggio ancora intatto, e con l'animo colto e raffinato della persona di città.
Si può dire che tutte le opere di questa singolare pittrice riflettano lo stupore, mai diventato abbandono, o, peggio, abitudine, di chi si trovi a contatto con la natura, di chi debba proporsi di risolvere secondo la sua cultura e la sua immaginazione questo rapporto, tanto elementare nella sua formulazione (natura-cultura) tanto difficile e rischioso a trovarsi senza distorcere uno dei due termini.
Nelle mostre precedenti Simona Weller ha sviluppato temi ed esperienze molto precisi: appassionandosi all'evoluzione della natura come in studi di laboratorio di cui avesse perduto i dati e che avesse ricostruito a colpi di fantasia; aggiungendo ai reperti fossili, alle pagine d'album di ornitologia, di entomologia, sagome antropomorfiche con valore di comprimarie. In questa seconda fase (mostra alla Galleria Pater di Milano) la figura umana sta a indicare l'esigenza di una meno occasionale indagine di natura, una necessità di dar spicco e porre in una dialettica più diretta con l'uomo le cose raccontate. Questa seconda esperienza, se non sarà risolutiva per i risultati (essendovi al fondo un equivoco tra figurazione e astrazione) sarà indicativa di un problema che voleva essere approfondito. Nella mostra personale di Napoli presentata da Filiberto Menna l'artista espose tutta una sua officina di avvicinamenti ai segreti della natura e della materia (da un'ala di farfalla i suoi rameggi e da questi le vene spaziando nel microscopio) reiterando i suoi stupori in immagini seriali, tappa artistica che le è servita anche per mettere a fuoco quest'ultima degli "strumenti agricoli".
La necessità di non mettere epoche diverse, oggetti e animali, cose dell'uomo e cose di natura tutte sul medesimo piano in una specie di sanatoria d'amore e di stupore, ma, conservando a ciascuno (come appunto ha fatto nella mostra di Napoli) il suo valore di reperto riscattato nell'immagine di pittura, rapportarla alla presenza dell'uomo, dare a questa presenza un centro che non fosse velleitario, non più per una via antropomorfica, ma simbolica, è stata messa a fuoco in questa ultima felice fase.
Qui si assiste sempre alla rinfusa di insetti, radici, bulbi, forme ossee, rane, conchiglie, attrezzi, ruote, ma questa rinfusa non è più il personaggio principale (anzi unico) del quadro, tende piuttosto a diventare fondo, quinta, e in primo piano a far emergere qualche cosa di presente e vitale, di utile e di necessario alla mano dell'uomo, un erpice, un fuoco, come appare nei tre quadri presentati: "Cose del fuoco", "Nascita di un solco", "Cose dell'aria". È già stato sottolineato il fatto che alla base della cultura e del temperamento dell'artista non è un mero omaggio all'inconscio per via più o meno dichiaratamente surrealista; la concretezza delle analisi, il modo di assembrare gli oggetti fanno piuttosto scattare la fantasia nelle iperboli, senza contare che il surrealismo ha sempre avuto (in quanto documento e mai catarsi) un fondo irriducibilmente pessimistico: nelle opere della Weller invece (e in modo particolare in queste ultime) si festeggia una tensione vitalistica, un autentico entusiasmo per i prodigi della natura, in cui la umana presenza, il suo lavoro, la sua fatica, non appaiono meno stupefacenti.
Roma, Dicembre 1969