Simona Weller: un percorso nell'inconscio
Guai a lasciarsi prendere dai ricordi, dalle suggestioni del tempo andato. L'obiettività del discorso correrebbe il rischio di essere annullata. Quando infatti un'immagine fa scattare come una molla la trappola appunto del ricordo, subentra subito una specie di simpatia, di comunanza e di partecipazione. Eppure nel caso dei quadri di Simona Weller, almeno per quanto mi riguarda, non mi riesce proprio di fare altrimenti, e ciò al di là di ogni questione critica, di ogni riflessione sul linguaggio, di ogni sua collocazione in questi nostri giorni, così incerti, così drammaticamente tesi ed anche contraddittori. Mi trovo insomma completamente coinvolto, confuso da differenti stati d'animo. Sulle prime non volevo neppure confessarlo, ma poi, riflettendo, mi è sembrato ingiusto tacere anche perché ciò che avrei inteso nascondere ad un lettore attento sarebbe apparso subito tra le righe. E non è tutto.
C'è da chiedersi una volta tanto se non sia opportuno affrontare le cose con naturalezza e con sincerità. Qualcuno tuttavia potrà obiettare che ciò che i dipinti di Simona Weller mi suggeriscono consiste allora soltanto in un fatto privato, in una questione tutta mia. Entro certi limiti, egregio signore! Ed ho pronta proprio per lei una considerazione che risale a molti anni fa, ma che peraltro è più che attuale. È Baudelaire in un saggio incompiuto, trovato dopo la sua morte ed intitolato "L'Arte Filosofica", ad affermare che "ogni buona scultura, ogni buona pittura, ogni buona musica suggerisce i sentimenti ed i pensieri che vuol suggerire".
Ebbene, le opere di Simona Weller sono intrise da un'aria di mare, dagli echi di voci lontane non ancora soverchiate dal rumore di un'autostrada, ma soltanto punteggiate da qualche grido improvviso di bambini e ragazzi che giocano, da qualche richiamo - un nome urlato da una finestra - che si perde poi nel rifrangersi della sua eco mentre la risacca torna a prendere il sopravvento rilanciando quasi a folate il salmastro e l'odore delle reti, delle conchiglie e degli ossi di seppia al sole.
È un ritorno all'infanzia - e poi vedremo di precisare il concetto - sempre presente; come dire, un ritorno attuale, di oggi come di ieri. E con esso altre vibrazioni, altre suggestioni, i silenzi tra le palme e i pini a strapiombo sul mare, tra i viottoli di case calcinate su in alto, tra i giardini deserti di ville appartate (almeno così sembra) e quindi le attese della gioventù, di una stagione in cui tutto, immagini, suoni, odori ed incontri, ha il sapore di una realtà sognata che deve avverarsi, che è desiderio di qualcosa che matura, che cresce in noi.
La luce allora, che abbaglia fendendo i ventagli delle palme, che cade sui gerani trascinando con sé il loro profumo, sulle agavi e gli oleandri, magari di una stazioncina appisolata, non è soltanto un fatto fisico. È molto di più e di diverso. La natura diviene insomma sentimento e senso, sensazione e vicenda; diviene personaggio come ognuno di noi è, o era, ed al tempo stesso diventa quaderno di bella copia su cui stiamo per scrivere, attenti a non fare le orecchiette agli angoli della pagina ed a non lasciare cadere una macchia proprio all'ultima parola.
È l'infanzia e la giovinezza che ritornano con la loro fragranza, la loro ingenuità, i loro sogni ed anche i loro drammi, sia pur piccoli. La mano scorre lenta sul foglio e la parola prende forma: mare (scritto col ritmo delle onde); onde (alla stessa maniera) e poi erba, cielo ed altro ancora.
Un'infanzia perduta come un paradiso, che tuttavia portiamo in noi e di cui andiamo alla ricerca; e non si tratta di un gioco o di un artifizio. Occorre essere limpidi, pronti a captare il ricordo di un attimo che non è di ora, ma che viene adesso alla superficie, richiamato, rievocato; guardare dentro a noi e trasferire con una simultaneità che è senso e sentimento, la realtà di oggi in quella di ieri servendoci dell'autobiografia quel tanto che è necessario per scrivere pagine destinate anche agli altri.
L'incanto del colore così, foglio dopo foglio, viene come ad allargarsi, a prenderci e contaminarci, a renderci partecipi di una vicenda e poi di un'altra e di un'altra ancora, avviluppati come da un sottile "spleen". Una pagina allora si tramuta subito in un'altra per sovrapposizione; di traverso, fra i colori filtra la luce e il colore diviene luce - anzi lo era già -, il segno e la parola si trasformano in punti di riferimento, soltanto apparenti ostacoli che subito ci si accorge che sono zone di cattura e di pausa dalle quali lo sguardo può muoversi per continuare il percorso, per rivedere ciò che è già stato visto e per ricrearlo un'altra volta.
La scrittura dunque, il segno, e il loro valore; un valore tutto particolare. Scrittura e segno, grafia e campitura breve di pennellate una vicino all'altra, sono, nella loro espressione di un mondo che nasce dall'infanzia e dalla giovinezza, mistero e rivelazione, sono colori, ritmo, cadenza, pausa, sovrapposizione, sequenza, tono, timbro ed attenuazione.
Ma tutto ciò sarebbe incompleto, più precisamente sarebbe parziale, se non tenessimo presente nell'opera di Simona Weller, accanto a questo coraggio di essere nella natura e nella realtà, tradotte non solo in un puro richiamo di atmosfere e di colori, se non tenessimo presente - dicevo - la contemporanea implicazione e quella sorta di riflessione su quegli strumenti che la cultura ci ha tramandato e che Simona ha fatto propri in una personale esplorazione. Per il passato sono stati ricordati i colori dell'ultimo Van Gogh assieme a cadenze divisioniste (i nomi ricorrenti erano quelli di Seurat ed anche di Monet) e poi ci si è soffermati sul valore della scrittura e del segno fino a citare Twombly. Inoltre, quando la Weller componeva i suoi dipinti con una serie di tasselli da cui il colore sgocciolava, venne fatto il nome di Mondrian, quello delle dune, quello della fase di transizione della natura, dalla realtà verso la sua mistica invenzione di assoluti e concreti equilibri. E questo è giusto se lo si considera con le opportune cautele, senza troppo debordare. La realtà infatti di Simona Weller non mi sembra che possa essere ristretta "tout court" entro limiti definiti; non può essere, come si dice oggi con un termine che puzza tanto di pandette, "codificata". Il suo è in principal modo un atteggiamento umano, di persona che coscientemente e con occhio critico si guarda intorno, che tiene conto anche di quanto il passato ci ha tramandato, ma che soprattutto sa guardare in se stessa. Il suo viaggio è allora sentimentale, ma solo fino ad un certo punto. È il risultato di un'indagine grazie alla quale affiora qualcosa di completamente diverso. La sua riflessione sul linguaggio pittorico, sul linguaggio e la pittura, sulla pittura come linguaggio, è in altri termini l'elemento per esprimersi e per definire esistenzialmente una propria realtà e per uscirne al tempo stesso.
Una introspezione dunque ed un percorso nell'inconscio operato con attenzione vigile, ma anche con sottile partecipazione. E non è tutto.
Se esiste una grafia che diventa qualcosa d'altro nel suggerire una parola che a sua volta è già immagine e viceversa, se esiste un colore che ora per i toni, ora per i suoi timbri, ci fa entrare in una dimensione che, pur restando tale, è pur sempre il presupposto per divenire altrimenti, se esiste tutto questo si deve allora ribadire una simultaneità sia sul piano estetico come sul piano psicologico. È una simultaneità che equivale ad uno specchio, alla rifrazione di immagini e di situazioni, è una simultaneità che equivale ad un caleidoscopio che ci proietta in un gioco cangiante pagine ora serene ora melanconicamente sognanti, ora cupe ora ironiche.
Pagine sempre rivelatrici, misteriose e presenti.
Roma, Gennaio 1977