Enrico Cocuccioni - 1983


Conversando con Simona Weller

E.C. - Mi sembra che il tuo lavoro attuale rappresenti un momento di sintesi e di ricognizioni. Si potrebbe parlare forse di una svolta?


S.W. - Sì, effettivamente ora adopero tutti i miei simboli. "Miei", perché attinti al mio inconscio, al mio vissuto, alla mia cultura. La mostra è intitolata "Il segno è l'esemplare parlato", da una frase di Gertrude Stein, scrittrice, nonché teorica dei cubisti; altre sue frasi hanno ispirato anche i titoli dei quadri. Mi sembrano perfette, evocative, magiche per quello che ho voluto dipingere: "Chiamata un po' qualsiasi cosa rabbrividisce…".


E.C. - E sei d'accordo sulla svolta?


S.W. - Certo, ho la consapevolezza che mentre in passato "cercavo, ora ho trovato" e mi piace che tu parli di sintesi. Sento il mio lavoro, pur così denso e ricco di citazioni, simile ad un fiume (lo stesso della pittura, lo stesso della vita), in cui ho imparato a nuotare. Ma, come diceva Picasso, considero il lavoro della pittura un'autoterapia e quindi diciamo che esso serve soprattutto a me. Certo, può aiutare anche altri scatenandogli risonanze particolari o possibilità d'identificazione; questo chiaramente, mi fa piacere. Esattamente come fa piacere ad uno scrittore avere la capacità di toccare la sensibilità di un lettore, così emoziona me aggiungere un occhio alla sensibilità di un altro.


E.C. - Ritieni, dunque, di aver raggiunto una maturità creativa?


S.W. - Spero, poiché credo che la maturità di un pittore si riveli quando la sua padronanza dei mezzi, umani e pittorici, diventa una cosa sola con la "creazione" (fatto questo che nulla ha da spartire con la più generica "creatività").


E.C. - Esiste una differenza, secondo te, tra creatività e creazione?


S.W. - Forse la stessa che esiste tra critico ed artista… Creativo può essere chiunque adoperi fantasia e talento, intuito e curiosità per arricchirsi la vita, per amare il proprio lavoro. Il processo della creazione, invece, è una lunghissima paziente ricerca, simile credo a quella scientifica, che può procedere per approfondimenti, rivoluzioni, invenzioni, ma che diventa "utile", solo se è capace di far rifiorire un ramo apparentemente inaridito, o di generare un nuovo albero da una piccola talea. Per albero, intendo, metaforicamente, questa grande quercia che sopravvive ai secoli col nome di Arte.


E.C. - È possibile, dunque, trovare un criterio critico per separare l'espressione in generale dall'arte in particolare?


S.W. - Cercando d'identificare le varie fasi di quel delicato processo che ha come risultato la creazione, forse ci si può avvicinare… Pensa, ad esempio, a quanto è naturale immaginare come prima fase, l'ispirazione! Io concordo con Severini, quando diceva che "l'ispirazione bisogna essere pronti a riceverla". Dietro l'ispirazione esiste già un coagulo di dati, fatti, informazioni, una decantazione di emozioni che scattano solo ad un certo momento. E quel momento è già una fase, come una terza potrebbe essere quell'imponderabile meccanismo che forse per associazione d'idee, ti fa intuire il risultato esatto nella composizione di un'opera (che infatti, non potrebbe mai essere diversa da quella che è…). Una quarta fase, riguarda poi, certamente, il coraggio o la necessità di misurarsi con l'esterno, esponendo i propri "risultati"… Ma se ne può individuare ancora una: la quinta, quella che interessa la sfera dei sentimenti, perché bisogna avere una fermezza, una tenacia, una forza non comuni per credere nel proprio lavoro a dispetto delle mode, dei terrorismi culturali, dell'ossequio al potere e (diciamolo almeno una volta!), a dispetto del fatto di essere donna.


E.C. - A proposito di mode, trionfa oggi una sorta di "pornografia della pittura"; qual'è la tua opinione su questo prepotente sovrapporsi dell'Immagine ad una dimensione orizzontale meno appariscente, ma forse più critica e costruttiva?


S.W. - Penso, che nell'accadere artistico possano coesistere vari fatti, anche se continua a ripetersi, vuoi per strategie mercantili, vuoi per strategie politiche, un atteggiamento settario, separatista, fazioso, che non giova ad una fertile circolazione di idee. Eppure le tendenze più opposte hanno spesso percorso binari paralleli. Il tempo, poi, dimostra che i gregari, i conformisti si sono spesso autocancellati, e che le personalità più autonome, più originali, hanno avuto ragione e neanche con tanto ritardo… Fenomeni abnormi come quello che tu chiami "pornografia dell'immagine" non sono che la logica conseguenza dell'abuso che si è sempre fatto della "tendenza all'ultimo grido". Nessuno ha mai il coraggio di dire tempestivamente che ci si può slogare le mascelle causa sbadiglio, quindi, per il momento, teniamoci ancora una volta "le bestie" che ci siamo meritati.

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S.W. - Perché ritieni che nel mio lavoro c'è "nonostante tutto" una componente ottimistica e propositiva?


E.C. - Intanto, perché avverto ancora nelle tue opere un impegno costruttivo, una tensione strutturante che, almeno in parte, si iscrive proprio in quella linea operativa dell'arte moderna i cui modelli linguistici e la cui estetica sperimentale sembrerebbero oggi fortemente in crisi. Tu stessa hai evocato la crisi del progetto e dell'ideologia parlando di una fase che non è più basata sull'idea di "ricerca" e che rimanda invece esplicitamente all'io non cerco, trovo di Picasso. Inoltre, perché l'idea di "autoterapia" ti consente "nonostante tutto" (ad esempio, malgrado i disperati problemi del rapporto tra artista e società) di ritrovare un centro, di arrivare ad una sintesi, di automotivare il lavoro. Ciò, per fortuna, consente ancora di circoscrivere uno spazio vitale, non certo d'evasione o sgombero da conflitti, ma entro il quale è pur sempre possibile trovare i punti d'ancoraggio di un atteggiamento positivo.


S.W. - Secondo te anche alla luce dell'approfondimento sul mio lavoro, c'è già una reazione nell'aria a quella "pornografia della pittura" di cui dicevamo prima?


E.C. - Direi di sì. Più che di una reazione, parlerei del farsi spazio, dell'esigenza di un differente equilibrio, (non certo precario, illusorio o banale, bensì forse più complesso di quelli entrati in crisi) tra l'immediatezza espressiva e la mediazione intellettuale, tra il pathos del gesto e il respiro di forme più "stabili", e più in generale tra memoria, immaginazione e realtà quotidiana.


S.W. - Oggi il critico tende ad aggirare l'ostacolo di un giudizio esplicito. Ma se si vuole ritrovare un dialogo tra artisti e critici, non credi che anche il critico dovrebbe esporsi?


E.C. - Certo, ma occorre distinguere tra evasività del critico, intesa come un comodo espediente diplomatico, e la necessità autentica di formulare giudizi articolati e complessi. Il dialogo richiede un ascolto attento ed una reciproca ampiezza di vedute. Mi sembra chiaro che nel nostro caso il dialogo già c'è. Non è solo un fatto di stima per il lavoro: nel rapporto tra critico e artista possono incidere anche la stima intellettuale, la simpatia umana e persino un po' di "mestiere". Ma ritengo che tutte queste cose siano in stretto rapporto fra loro. Un rapporto che, in questo caso, trovo particolarmente pregnante e ricco di senso. Direi che qui è innanzi tutto il critico ad arricchirsi, a trarre profitto e piacere dal dialogo con l'opera e con l'artista. A mio avviso il percorso del tuo lavoro non si lascia ricondurre ad una spiegazione semplice, ad una linea retta. Non persegue una formula, un metodo esplicito, una premeditata e pedissequa coerenza. Eppure lo trovo singolarmente coerente: non si lascia neppure spiegare in termini di pura discontinuità o di svolta radicale. Ciò mette in questione il mito ideologico della ricerca, del progetto, del meccanico evoluzionismo linguistico. Ma ciò relativizza anche quei modelli teorici che spiegano tutto in termini di scarto, rottura, cesura pura o catastrofe. E se fosse proprio questa terza via, il sentiero che l'arte è realmente destinata a percorrere?

Roma, Aprile 1983