Paolo Portoghesi - 2008


Simona Weller

Penso al mio dipingere un quadro dopo l'altro, / un anno dopo l'altro, come ad un'onda che spinta dal vento si formi e si riformi. / Il mare resta là come l'arte, come la pittura, pronto a cambiare, / ma nello stesso tempo immutabile. / Al contrario dell'onda, io so che non posso cambiare il mare, la pittura, l'arte, / ma esattamente come l'onda percorrerò il mare, la pittura, l'arte / fino a quella spumeggiante e (mi auguro invidiabile) fine.

Simona Weller, nata con due vocazioni autentiche per la pittura e per la scrittura, si racconta in queste parole come nessun altro ha saputo fare. Anzitutto fa i conti con il mare, uno dei protagonisti del suo esserci e si descrive in perenne percorso pronta a cambiare, ma sicura di avere dentro di se qualcosa di immutabile. E proprio da questa contraddizione tra una personalità forte e decisa e una inclinazione tutta femminile a provare, a sfidare l'occasione e il destino, emerge una delle avventure intellettuali più gioiose e genuine della pittura italiana di questi ultimi decenni.

Simona rivela fin dall'inizio una capacità istintiva nell'indagare ipotesi plurime di ricerca. Negli anni Sessanta, ancora fedele alla figurazione filtrata, anticipa strade che saranno percorse da altri a distanza di anni o di decenni, fino a che, aiutata da un clima favorevole a stabilire un rapporto pittura-scrittura, si cimenta con le grazie dell'alfabeto e le parole ripetute, non "in libertà" ma secondo una precisa strategia ritmica che individua un valore pittorico nella mutevolezza, nella ripetizione, nella sovrapposizione, nella metamorfosi, nel ruolo del colore. In principio utilizza la malleveria del segno infantile e attraverso il fondo nero della lavagna accentua nel quadro il valore del messaggio da decrittare, ma presto subentra il mare di lettere, la successione infinita di lettere che diventano increspature di maretta, onde sottili che riprendono contatto con le emozioni che provengono dallo spettacolo della natura. Così il giro si compie per intero: l'astrazione si concretizza nel segno, acquista durezza con il supporto della parola e attraverso la vibrazione del colore ritorna alla evocazione della natura e al culto della bellezza, vissuto in proprio da una donna di grande fascino, ma proiettato nella felicità del segno e nella pienezza del colore.

Simona ha raggiunto maturità e prestigio e potrebbe abbandonarsi alle gioie (?) del mercato, ma non si stanca di sperimentare: scrive lettere d'amore ai grandi che hanno aperto il ciclo dell'arte moderna: a van Gogh, a Seurat, a Mondrian e poi ai cubisti. Lo fa in modo confidenziale al limite della irriverenza; a van Gogh scrive: Caro van Gogh, quando in primavera fuggivamo nei prati; a Seurat: Caro Seurat, aspettando un pomeriggio di domenica per tornare all'isola. A Mondrian: Caro Mondrian, ho sognato il tuo albero... Il procedimento è affettuosamente ironico; la tecnica del divisionismo interessa Simona sempre nel senso della scrittura, il punto di Seurat, come il tratto fibroso di Vincent fanno parte del mondo della interpunzione come la virgola e l'accento e il punto e virgola di cui un quadro celebra l'infinita solitudine e lamenta la condizione permanente di disoccupato. Per una specialista di scrittura questi segni sono fondamentali. Di Mondrian rievoca il progressivo allontanarsi dalla immagine naturalistica e opera un transfert: suggerisce all'austero cultore della teosofia di provare i foglietti cubisti trasformando l'idea dell'albero in un gioco di quadrati permutati matematicamente. Si ha l'impressione che la pittrice si rivolga con tanta gentilezza ai suoi predecessori non per imitarli ma per farsi prestare qualche strumento prezioso da utilizzare per fini del tutto diversi. Perché la sua ironia è caustica e irriverente. Il pomeriggio alla Grand Jatte è oggetto dei decostruzione e riduzione in frammenti incoerenti, fino a trasformarsi, dopo l'analisi e le vivisezioni in una vibrante calligrafia.

L'orgoglio di essere donna e pittrice ha una forte influenza sulla sicurezza e perfino aggressività di molte sue immagini, ma trova il suo esito migliore nella ricostruzione accurata della biografia di due donne pittrici, Angelica Kauffmann e Suzanne Valadon in cui dimostra doti di scrittore di vaglia. E i due libri sulla Valadon fanno capire quanto Simona abbia voluto immergersi nell'aura mitica degli albori della modernità, mescolandosi idealmente a quel gruppo di personalità geniali che abitavano Parigi in quegli anni cruciali.

Nonostante il distacco e l'ironia sui mezzi e sulle eredità da mettere a frutto la pittura di Simona è lirica, senza complessi: in tutti e due i significati della parola, quello che allude al cantare al suono della lira e quello che indica una poesia caratterizzata da soggettivismo. La musica infatti è la condizione alla quale aspira costantemente, svolgendosi nel tempo attraverso il procedimento di lettura che suggerisce: da sinistra verso destra come si conviene a una scrittura, e componendo sempre delle serie, serie di segni, serie di intervalli, serie di inquadrature. L'obiettivo è il tempo da imprigionare nelle immagini; la musicalità una conseguenza di questo godere dello scorrere, del succedersi, dell'incessante fermento della materia viva. Simona siede divertita sul greto del fiume o sulla sponda del mare, o davanti alle fiamme del caminetto, e guarda le forme del movimento, ne studia i segreti per impossessarsene. Ci riesce confezionando delle "lunule", simili a quelle studiate da Leonardo, combinazioni di segmenti di cerchio, simili a virgole giganti ma corpose, cariche di colore tanto da perdere il valore disegnativo.

La soggettività poi è smaccata e seducente: evoca spesso il quotidiano, l'aneddoto, il ricordo e lo confronta con lo storico con l'importante. Mao è il gatto nero di Lella (lavagna) è il titolo di un quadro dipinto quando infuriava la "rivoluzione culturale"; Se piove la prima uscirà dal portone dell'asilo è un altro titolo. Lo scintillio non è un canto di sirena, ma colore liquido a cui lasciarsi andare; Ad una carta così sono necessari gli azzurri, una scacchiera e l'estate. Titoli così sembrano appunti su un taccuino o parole rivolte dalla pittrice ai quadri che sta facendo, trattati come persone che stentano a capire cosa si chiede loro.

Dovendo trovare una parola che esprime bene il valore e l'eccezionalità della pittura di Simona Weller opterei per la gioia, così raramente presente nella contemporaneità e che si addice a questa ricerca di orizzonti luminosi, di spazi del vento, di cicliche vicende solari, di ondulate sonorità. A patto però che non si confonda la gioia con la spensieratezza e la supina accettazione del presente. Molto bene ha colto la profondità di questa gioia che non ignora, dove rinuncia al colore, la cruda ciclicità e la morte un grande poeta come Elio Pecora: Parole che parlano foglie, / nubi, paludi. / Dentro stretti alfabeti / il mare, la morte. / l'A della attesa, / l'U dello stupore... E parli, ma dentro una rete / di azzurri-verdi-viola, / di gialli assolati, di rossi: / in essi il grido, il sussurro / l'annuncio tardo, segreto, / lo scarno saluto, l'inizio / di un mai concluso discorso.

Ho visitato periodicamente, ad intervalli di decenni gli studi in cui la Weller dipinge e adesso che entrambi abbiamo scelto Calcata come stabile soggiorno, assai più spesso accedo alla sua officina per godere anch'io, amante della natura, della linea curva, delle foglie, del vento e del movimento delle acque e del fuoco, ma anche delle virgole, dei punti e dei punti e virgole disoccupati, di questa sua capacità di raccontarsi e di raccontare emozioni, sentimenti che al cospetto dei suoi quadri tornano a galla da dentro le proprie radici. Perché uno dei pregi dell'arte è proprio quello di nascere da una esasperata soggettività e privatezza per poi generare una magnifica intesa aperta a chi bussa alla porta dell'artista, con la volontà di ascoltare in silenzio.