Sandro Barbagallo - 2005


L'arte, l'estate, la nostalgia
da una conversazione con Simona Weller

Quando Simona Weller è tornata a Finalborgo, era estate. Mi faceva da guida mostrandomi la torre di via Nicotera 34 dove ha abitato nei favolosi anni Settanta, e quel bar fuori le mura nel cui spazio nacquero alcuni dei suoi quadri più belli. Sapevo che anche Cesare Vivaldi, all'epoca suo compagno, aveva scritto in questi luoghi versi memorabili ispirati all'arte, alla pienezza dell'amore, al dolore dell'abbandono. Sia l'abbandono di questi posti amati che il lento ritirarsi della piena dell'amore.

Poi nell'estate del 2004 Simona è stata invitata a Finale Ligure per presentare il suo recente romanzo Memorie di una pittrice perbene. Romanzo che è stato letto dalle persone giuste, quelle che poi si sono prodigate per organizzare questa duplice esposizione. Come per incanto Simona ha ritrovato vecchi amici e ne ha scoperti di nuovi, perché nel suo libro si parla a lungo sia di Finalborgo che di Calice. Soprattutto si rievoca quell'atmosfera così speciale che un gruppo di artisti riesce a catalizzare intorno a sé. Un'atmosfera fatta di attesa, speranza, progetti, sogni di gloria e, perché no, un'impalpabile follia.

Che io sappia nessuno ancora si è preoccupato di storicizzare quella che io chiamerei senza incertezze "Scuola di Calice". E non mi si venga a dire che gli artisti erano troppo eterogenei sia per generazione che per tendenza. A me è sempre sembrato importante, invece, che ognuno di loro difendesse la propria avanguardia e che "lo spirito del tempo" ispirasse con estrema libertà l'arte di quei nomi ormai celebri. Non dimentichiamo che nelle città, negli anni Settanta, si parlava di "impegno" politico nell'arte. Così avveniva che spesso la pittura fosse in odore di propaganda. Tra Finale e Calice, invece, gli artisti approdavano come in un'isola felice in cui non dovevano dimostrare niente a nessuno e semmai le loro "rivoluzioni" le avevano fatte a tempo debito (come Nangeroni, Reggiani o Scanavino). Mi risulta infatti che, rileggendo l'elenco dei circa centoventi nomi che sono passati per Calice, non solo era rappresentata gran parte della migliore arte italiana del dopoguerra ma, salvo qualche eccezione, nessuno era allineato a una qualunque ideologia capace di mistificare la propria arte. E comunque, per gruppi di tendenza, Nangeroni, Mauro Reggiani, Capogrossi, lo stesso Scanavino, erano legati ad una pittura genericamente definita astratta che si rifaceva alla ripetizione e al modulo. Il gruppo dei più giovani (come Mondino, Nespolo, Mambor, Stefanoni, Ben Vautier e la Weller) erano invece suggestionati dalla grande novità del momento: quella Pop Art americana che aveva in Europa radici antiche sia nell'Art-Brut che nel Dadaismo. Tanto che neodadaista venne chiamata anche la Scuola di Piazza del Popolo, a Roma.

Se dunque è da trovare un filo rosso tra tutti questi artisti, lo chiamerei libertà o meglio autonomia spirituale.
Ma per capire fino in fondo cosa ha reso così irripetibili gli anni di Calice e la sua leggenda, bisogna metterne a fuoco i presupposti. La prima domanda da porsi è: cosa sogna un giovane artista? In ordine di importanza: trovare uno spazio adeguato alle proprie esigenze espressive ovvero uno Studio; avere intorno un gruppo di amici sostenitori che gli facciano da supporto nei momenti di scoramento; lavorare con un gallerista che sappia promuovere, difendere, far circolare le sue opere.

Queste tre condizioni, tutte presenti nella zona, crearono il giusto interesse e andirivieni tra Finale e Calice. Ma gli artisti di Milano, Torino e Roma, vessati dagli affitti impossibili delle grandi città, furono i primi ad affittare o a comprare una casa-studio. Indimenticabile la villa rosa che Mondino affittò a una cifra irrisoria. Era una tipica villa ligure che evocava fantasmi, per i suoi animali impagliati e i mobili coloniali con la passione del tarlo. Nangeroni diceva che assomigliava al suo affittuario. All'epoca Mondino stava dipingendo un ciclo di quadri dedicato ai misteri del gioco de I King.

Nell'estate del 1970 Simona Weller arriva con i suoi figli e Cesare Vivaldi. Anche loro, chiamati dall'Emilio, abitano all'Hotel Viola. Cesare ha una sua stanza per scrivere e "i tre bambini" (Simona aveva appena compiuto trent'anni) una grande camera con vista sui monti. Ed è sulla veranda di quella camera che Simona dipinse le sue prime opere liguri. Nei pomeriggi più caldi salivano fino a Calizzano, per cercare funghi nei boschi. I bambini impararono a mangiare le lumache. Un giorno ne catturarono così tante, che non riuscirono a portarle in cucina perché quelle si erano ammutinate e avevano infestato tutto l'albergo.
Fin da quella prima estate, capirono che quel posto era per loro. C'erano i figli degli altri artisti per giocare, tre o quattro gallerie per esporre, pittori e scultori con cui confrontarsi, litigare, legare. Ogni gruppo o famiglia trovò i propri affini. Loro simpatizzarono con i Nangeroni. Ma stavano anche con Mauro Reggiani, caposcuola dell'arte astratta italiana, nonché autista spericolato, pescatore, uomo spiritoso e amico generoso.

Poi c'erano gli altri (oltre a Nanda Vigo, alla coppia Cusumano e al gruppo della rivista D'Ars), gli artisti che Simona aveva già incontrato nelle mostre collettive per i giovani: De Filippi, Stefanoni, Mariani, Moncada, Nespolo. Molti di loro comprarono un rustico sulle colline tra Finalborgo e Calice.

Anche Simona e Cesare decisero di cercare casa. Un giorno incontrarono un signore gentile di nome Enrile. Quando sentì che lei dipingeva e lui scriveva poesie, volle mostrar loro la soffitta in cui si rifugiava da bambino. In via Nicotera, a Finalborgo, li guidò per una ripidissima scala. Ma aveva un'aria incerta, sembrava titubante. Arrivati in cima alla torre, aprì una porticina, quasi un passaggio segreto e, scusandosi, li fece entrare nel "paese delle meraviglie".

Pare che fosse un'autentica scenografia della bohème. Il fascino del posto forse era dovuto ai soffitti altissimi e spioventi, alle travi a vista, ai camini, ai davanzali di lavagna, alle nicchie e alle finestrelle… Fu un amore a prima vista. La risposta ai sogni più romantici del poeta e della pittrice. Nulla a che vedere con le asettiche case di città.

Il fatto più divertente fu che il signor Enrile, colpito dall'entusiasmo con cui la coppia aveva apprezzato il suo mondo infantile, non solo chiese un affitto simbolico, ma decise di restaurare il tutto a sue spese.

L'estate successiva traslocarono. La mansarda di Finalborgo venne sommariamente arredata con molti quadri e molte piante. Nei primi mesi Simona dipinse per terra i quadri che avrebbe esposto alla sua prima Quadriennale. La mossa successiva fu quella di cercare uno studio per lei.
Fu così che cominciò per Vivaldi e la Weller una vita parallela in Liguria: arrivavano alla fine di maggio primi di giugno e ripartivano a fine settembre, primi di ottobre. Ogni tanto, durante le altre stagioni, "spinti dalla nostalgia" come ha scritto Vivaldi nelle sue poesie, tornavano per qualche giorno nella casa di Finale.

Era un posto meraviglioso per lavorare. Cesare scriveva versi, Simona dipingeva i suoi primi quadri importanti. Tutte le tensioni causate dalla competizione e dalla corsa al successo si dissolvevano nel nulla. Anche perché avevano deciso di non avere telefono.
Per chiamare parenti e amici andavano al bar Ercole, in fondo alla strada (c'è ancora ma con un altro nome). Ci fu un periodo che Palma Bucarelli, per correggere un'intervista che Simona le stava facendo, riusciva, previo telegramma, a chiamarla tutti i giorni al posto pubblico.
Insomma, la Liguria proteggeva anche dalle tossine di rapporti professionali mai del tutto risolti. Rievocando i lunghi periodi liguri Simona parla di appagamento e di pienezza. Finalmente aveva tutto ciò che poteva desiderare: l'arte, i suoi figli, il compagno giusto nella casa che le corrispondeva. Uno spazio pieno di fantasia e cose amate, di scorci e di sogni.

Sembrava che quel tempo incantato dovesse durare per sempre. Invece, come spesso accade quando si vive qualcosa di straordinario, nessuno di loro sentiva che quel tempo stava per scadere, insieme alle amicizie e agli incontri che facevano quotidianamente.
Una sera a Boissano, nel giardino della gallerista italo-svizzera Anna Maria Janneret, c'era una cena in onore di Andy Warhol, ospitato perché potesse scrivere in pace la sua autobiografia. Nessuno dava ancora importanza al mitico artista americano, il quale si presentò con la storica pettinatura a paggetto e un pallore malato che certo non ispirava simpatia. Quell'aspetto molliccio e scostante gli valse il soprannome di "polentina" dai bambini, sani e abbronzati che gli correvano intorno.

Sempre i bambini furono i primi a contestare Franz P. quando espose il lavoro concettuale di Beuys: "una vecchia giacca e un cappello" al centro della sua galleria.

Beata indignazione infantile! Questo per dire che non c'erano mostre qualunque in giro a Calice. Tra i galleristi Remo Pastori faceva del suo meglio per presentare vecchi maestri e artisti giovani come Simona. Pare che Pastori fosse un personaggio sopra le righe, un simpatico mitomane che, pur giovane, amava far credere di aver vissuto con gli artisti delle avanguardie storiche. Era molto amato dai pittori di Calice. Tanto che si tassarono per regalargli un orologio di Cartier, in segno di riconoscenza.

Plagiatore nato, era riuscito a convincerli a non pretendere nulla per la vendita delle loro opere. "Non importa vendere, bisogna sapere a chi si vende", oppure "La collezione di un grande industriale non è uguale a quella di un anonimo professionista" e ancora "Bisognerebbe pagare per poter entrare in certe collezioni, quindi considerati un privilegiato".

Un giorno, stanca di queste frasi che avevano portato gli altri alla riconoscenza e lei all'esasperazione, Simona piombò all'improvviso nel suo ufficio. Caso volle che un collezionista uscisse con un suo quadro sotto il braccio, lasciando un assegno in bella vista sulla scrivania (doveva essere circa il trentesimo quadro venduto di cui non aveva visto una lira). Con incredibile prontezza di spirito Simona afferrò l'assegno al volo:
- Questo è per me, vero Remo?
- Dammi almeno un po' di resto! - rispose lui avvilito con un filo di voce.
La Weller si allontanò ridendo, trionfante.

Due anni dopo il suo arrivo, Simona aveva affittato i locali di un'ex banca, sulla riva del torrente Aquila, all'uscita da Finalborgo. Divenne il suo studio e anche il luogo dove si organizzavano feste per gli artisti.

Vivaldi, in una sua poesia dialettale, lo descrive così: "Fuori della finestra il verde di zucche e albicocchi; sul bianco muro, dentro, lei lavora a una tela dove brani di parole si perdono come uccelli in quest'aria bianca che sa di mare. Guardo che cosa fa: vedo che è più grande di me questa tela, grande come l'amore, si perde fuori della finestra verde, copre tutto Finale."

Abbiamo comprato, proprio in questo periodo, l'ultimo libro di poesie liguri, vecchie e nuove, di Vivaldi. È uscito da Scheiwiller nel 1980 con una piccola lito di Simona su fondo nero. L'ultima poesia della raccolta si intitola "Finale d'inverno".

"Finale d'inverno. Le palme pungono l'aria come stecchi, il mare batte e sputa sino al marciapiedi. Nell'aria umidiccia sembra nascondersi la vita. Ma è l'ora di tornare a Roma per sempre: piano piano riempiamo le casse che ci aspettano, vuote. Fa freddo e io non sono buono a niente, sempre più buono a niente. Guardo le tue belle mani che lavorano, affaccendate nell'inverno, la tua faccia di sole che scalda un poco le finestre ghiacciate e non son buono a parlarti d'amore."

"È l'ora di tornare a Roma per sempre", diceva uno dei versi. Chiedo a Simona perché decisero di andar via. Forse perché lei aveva comprato la casa di Calcata, più vicina a Roma. Forse perché qualcuno era morto troppo giovane e qualcun altro non si incontrava più. O forse a causa di quell'inondazione che si era insinuata nel suo studio furtivamente.

Chissà se Umberto Rotelli la ricorda. Rotelli è un altro degli amici galleristi che Simona ama ricordare.
Quell'anno aveva piovuto moltissimo, troppo. Il torrente, asciutto in estate, si era trasformato in un fiume in piena ed era straripato. La strada che divideva lo studio dall'argine si era allagata e, probabilmente, il liquame arrivando all'altezza delle finestre e della saracinesca era penetrato all'interno. Non si è mai riuscito a capire come tutta quell'acqua avesse trovato possibilità di accesso, forse attraverso gli interstizi delle finestre o da sotto la saracinesca. Fatto sta che acqua e fango penetrarono furiosamente, violentando quello spazio pieno di quadri e di colori. Raggiunsero circa un metro e mezzo di altezza. Finché, chissà dopo quanti giorni, tornò il sole e un vento forte di tramontana. Lo stesso vento che aveva spalancato le finestre, asciugò l'acqua. Ma il fango restò a nascondere tutto. Un'argilla dorata, bellissima, rivestì scaffali, cavalletti, tavoli, di un colore caldo, vellutato. Quando si aprì la saracinesca Simona era con Vivaldi e Umberto Rotelli. Tutti e tre rimasero senza fiato. Lo spettacolo era apocalittico, ma al tempo stesso affascinante. Pare che Cesare canticchiasse alcuni versi di Ungaretti che parlavano di allegri naufragi. Simona invece ricorda che prima di pensare a quante sue opere si fossero rovinate, per la prima volta comprese quanto misteriose fossero le vie dell'arte. In fondo ciò che stava vedendo era un'installazione spontanea e, forse per questo, così perfetta, così emozionante. C'era persino una lunga bava di terra rossa lasciata da uno dei barattoli di colore in polvere Windsor&Newton. Chissà quanto a lungo quel barattolo aveva galleggiato per disegnare quella "disperata traccia del suo percorso". Fissavo ipnotizzata il mio studio ferito quando sentii Cesare che mormorava: dovevamo proprio andarcene!

Nell'estate di questo 2005 Simona Weller torna in Liguria come la grande artista che è diventata. I luoghi della sua giovinezza le renderanno omaggio e lei, in cambio, racconterà, attraverso i suoi quadri, la favola di quegli anni incantati. I Chiostri di Santa Caterina a Finalborgo e la Casa del Console a Calice ospiteranno molte opere che in questi posti sono nate e che, lontano dalla Liguria, sono poi maturate nel cuore e nella memoria di quest'artista che oggi ho il privilegio di presentarvi.

Sono felice di aver potuto curare nei dettagli una mostra come questa che non è solo un'antologica di pittura, ma traccia un percorso attraverso i colori e la poesia che hanno ispirato un'artista che sui colori e la poesia ha costruito la propria vita.

Roma, 10 Maggio 2005