A distanza ravvicinata
Siamo all'opposto di una tabula rasa, dove non rimane traccia di ciò che è stato precedentemente annotato; protagonista è, infatti, una "tabella" dove si accumulano, solo apparentemente a caso, episodi, memorie, appunti di parole e di figure, in un procedere continuo, interrotto solo per i limiti fisici del supporto perché, altrimenti, il discorso sarebbe all'infinito.
Posso registrare solo alcune sommarie riflessioni sul lavoro di Simona Weller perché i tempi sono "stretti", secondo una modalità nel complesso faticosa ma nello stesso tempo capace di sollecitare l'essenziale, non tanto il calcolo e la "distanza" dell'indagine a tavolino, con bibliografia a portata di mano, quanto la riflessione per un'urgenza, in qualche modo più partecipata perché, alla confortante attrezzatura degli altri, è necessario sostituire la sensazione spontanea. In questo sono facilitato da una conoscenza con l'artista fatta di incontri molto dilatati nel tempo, comunque sempre convincenti.
Ma il lavorare diretto, senza schemi o filtri, e la variabile "tempo" mi sembra siano anche gli elementi nevralgici del lavoro in discussione: sono allora l'immediatezza dell'appunto e il tempo della sua realizzazione, il desiderio di registrazione delle della sua correzione gli atteggiamenti centrali che Simona porta con sé nel proprio agire da artista plastica, ma credo anche in quello, parallelo al fare pittorico, di scrittrice e di biografa, "di parte", dell'espressività femminile del passato.
Allora l'opera come accumulo di diverse "sedute" o di diversi stati d'animo, diverse necessità a registrare e quindi a raccontare: indipendentemente dalle dimensioni, spesso imponenti, alle soglie dell'installazione di alcuni lavori, l'immagine che mi suggeriscono è quella della lavagna, forse perché il fondo nero è scelta ricorrente, come, diversamente, il quaderno di appunti; e si tratta di due luoghi, a pensar bene, divaricanti: la lavagna prevede un luogo comune fra attore e pubblico, una volontarietà di rendere evidente un percorso di senso; il taccuino è privato, spesso nascosto a occhi indiscreti.
Eppure mi sembra esista, in questa "mimesi" di contrastanti strumenti del comunicare, una medesima volontà di rendere "familiare", prossimo, un materiale che può avere soggetti privilegiati, ricorrenti, come nel recente ciclo delle Lettere di una pittrice italiana a Vincent van Gogh, oppure giocare su alcune parole/chiave, di sapore autobiografico la cui declinazione, fra scrittura, pittura e figura, diventa un percorso di rimandi esplicito anche per chi è estraneo.
Protagonisti allora sono i privilegiati strumenti della memoria, colti però nella fragilità del loro momentaneo passaggio, soggetti a possibili correzioni tanto nello scrivere successivamente riga dopo riga, quanto una volta letto l'intero paragrafo.
Si tratta di due casi distinti di provvisorietà perché nel primo - la lavagna - un colpo di spugna può annullare quanto "segnato" - adotto il verbo per una esplicita equivalenza dialettica fra parola scritta e immagine - per nuove possibili avventure; nel secondo, quello dell'appunto, siamo in presenza di un materiale alle soglie del diario, quindi un documento interno, transitorio prima di essere tradotto in un prodotto "giunto a compimento", realizzato a regola d'arte, secondo i dettami delle buone maniere del comunicare.
Certamente una suggestione, probabilmente suggerita dall'artista, perché l'opera è, per sua natura, almeno in questo caso, "definitiva" nel suo essere trasparente testimonianza di un procedimento determinato da ipotesi poi cancellate, quasi abrase dalla superficie per essere sostituite, con un intervallo di tempo variabile, da nuove alternative.
Sullo studio delle varianti si basa una fetta non indifferente della critica di un prodotto espressivo: poter cogliere i "passaggi" è un punto di vista privilegiato, una scelta dell'artista di svelare tentativi falliti, pentimenti, quindi il nocciolo del problema. Il fare, il "rifare", la sovrapposizione di colori come di scritture diverse sembrano alludere a questo processo di revisione continua che, alla fine, porta a un risultato attuale ma carico del passato, senza la presunzione dell'edizione definitiva, purgata dai pentimenti, invece ricca dei diversi passaggi che costituiscono la storia originale della singola opera.
Allora l'opera è un gioco di stratificazioni che in parte possiamo intuire, in parte rimangono legate alla soggettività della lettura: vi è essenzialmente una decifrazione a partire da un "paleosuolo" di cui affiorano alcuni lacerti per giungere, per disomogenee fasce sovrapposte, fino a uno strato definitivo, carico e memore delle esperienze precedenti. La scoperta della profondità è in qualche modo un rallentamento nella comprensione del messaggio, una memoria dei tempi che sono occorsi per giungere perfezione", una stazione definitiva dalla fisionomia variabile, episodio dopo episodio.
A questa prima indagine, evidente nella sovrapposizione di "lacerti" diversi della memoria - parole, immagini, grafi colorati considerati come segni equivalenti, della medesima intensità espressiva - si deve aggiungere quella di un occhio che, abituato allo scorrimento lineare della riga posta in successione, questa volta si affatica fra una lettura del complesso della pagina/superficie e uno invece più ordinato e conseguente nel percorrere la superficie da sinistra verso destra, dall'alto verso il basso.
Vi è, per conseguenza, una consonanza, possibile solo quando ci si impegna nel terreno, per questo difficile, dell'espressività, fra un "disordine" della memoria - che affastella episodi, frammenti, anche trasformandoli in un gioco di "bassa definizione", di attenuata evidenza - e un ordine che la regola della scrittura, della pagina disciplinata dalle coordinate cartesiane, conosce e che Simona continua a considerare, mi sembra, il suo riferimento privilegiato.
Nel corso degli anni si può cogliere una maggiore o minore evidenza accordata ai singoli linguaggi messi in opera - appunto la scrittura, la grafia, l'illustrazione - in un gioco costante di equilibri precari, eppure espliciti nel loro essere ritratti di un episodio, di un "capitolo" se può passare la metafora narrativa, di un racconto dai contorni costantemente incerti, giocato sulla memoria in prima istanza, sulla volontà di far affiorare dall'esperienza qualche testimonianza, qualche "eco" raccolta, di renderla a confronto durevole con il presente, quella della "tabella" scelta nell'occasione, mescolando il tutto per un futuro di un nuovo lettore, che si possa appassionare, quindi rendere attuale il resoconto, la pagina di diario come la lavagna dell'aula di scuola.
Milano, Aprile 2005