Sandro Barbagallo - 2001


Alla ricerca del segno perduto
una pittura lunga quarant'anni


Quando, a soli diciannove anni, Simona Weller si affaccia sulla scena artistica italiana, infuriano le polemiche tra astrazione e figurazione. Incalzano i giovani Neo-Dadaisti di Piazza del Popolo, mentre negli Stati Uniti c'è già il boom della Pop Art. Quando Simona visita le mostre è frastornata dal vitalismo guttusiano da una parte e dall'informale materico dall'altra. Tra le artiste ama la Maselli, è incuriosita dalla Fioroni, non capisce Carla Accardi. Insomma, non si riconosce in nessuno degli artisti di cui scrive l'autorevole "Paese Sera", ma è sicura che diventerà essa stessa pittrice.

Dopo una brillante maturità classica, frequenta i corsi dell'Accademia di Belle Arti di Roma. L'Accademia le serve come legittimazione nei confronti della famiglia e forse anche di se stessa. Le serve per impadronirsi delle tecniche, dal modellare la creta ad incidere lastre all'acquaforte, dalla pittura ad affresco a quella della tempera all'uovo della grande tradizione italiana. Le serve per disegnare tutti i giorni dal vero e poi per spiccare il volo verso paesi lontani. L'occasione è una borsa di studio UNESCO per un paese dell'Estremo Oriente: il Siam. Per destino o per istinto Simona cerca la sua strada partendo. In anticipo sui giovani che dieci anni dopo avranno il mito dell'India. Come tutti i primi grandi viaggi, anche il suo sarà un viaggio iniziatico. A contatto con altri mondi, religioni, civiltà, le beghe della cultura italiana, gli intrighi del sistema dell'arte, le sembreranno piccole cose meschine.

Durante l'adolescenza si è nutrita di racconti di viaggio, è affascinata dall'esotismo di Gauguin, ma considera Galileo Chini un artista importante di cui infatti ritroverà la lezione nell'atmosfera dei paesaggi thailandesi. In questo periodo sogna e vive come un giovane esploratore dei tempi di Rimbaud e di Verlaine. Non ha ancora messo a fuoco il fatto di essere una donna. E una pioniera.

Naturalmente ciò che più la colpisce in Oriente sono le insegne dalla scrittura indecifrabile. Caratteri cuneiformi e ideogrammi di cui Simona intuisce la segreta armonia (e la registra come qualcosa che le potrà venire utile un giorno). In Oriente tutto le appare meraviglioso: mare, fiumi, risaie, giungla, città morte. I vestiti della gente, le stoffe dai colori iridescenti, la pelle delle donne dai riverberi di bronzo, gli odori violenti. Mi soffermo su questi anni della giovinezza di Simona perché ritengo che da questa esperienza essa abbia attinto per tutta la vita l'originalità della sua ricerca e un forte senso di identità.

Al ritorno da ognuno dei suoi lunghi viaggi (in Thailandia, in Egitto, in Spagna) Simona frequenta i corsi dell'Accademia di Roma fino a diplomarsi. Ha studiato con Ferrazzi, con Mafai e con Maccari, che hanno fatto del loro meglio per trasmetterle disincanto e scetticismo per una vita che lei sogna dedita all'arte.

Improvvisamente comprende che essere donna è una discriminante (deve far finta di non sentire l'elenco di luoghi comuni che le vengono inflitti da chiunque incontri). Quando sembra che tutti ci tengano a scoraggiarla, lei sfida nuovamente la sorte. Si sposa, mette al mondo due figli, si autoconfina nella campagna umbra per dipingere, dice, lontano da tentazioni mondane.

Naturalmente la solitudine, il contatto con la natura e la stessa maternità influenzano profondamente il suo lavoro. La sua pittura si libera dalle scorie accademiche (o folcloristiche dei viaggi) e comincia ad esprimere un mondo autonomo. La tecnica si affina e si scaltrisce. È di questo periodo (1965-1970) l'uso degli smalti e inchiostri su carte preziose. Carte di riso (cinesi o giapponesi) o tele preparate come muri. Su questi supporti compaiono disegnati con la precisione di un entomologo e colorati con la poesia di un Klee, insetti, reperti fossili, bacche selvatiche.
Ogni volta che Simona esce dal suo ritiro, visita le grandi mostre e riesce a farsi notare da alcuni critici. Ha già cominciato ad inserire timidamente nei suoi quadri, frasi, versi, scritte ispirate alle iscrizioni latine che si vedono a Roma tra le rovine. Il suo mondo (surreal-naturalistico lo definiranno i primi critici) è ancora legato al ciclo della vita, alla metamorfosi delle cose che germinano appena sotto, o subito sopra, la terra.

Nel mondo dell'arte intanto succede di tutto. Nel 1962 la Biennale di Venezia ha lanciato definitivamente la Pop Art e con lei un'artista che Simona ammirerà molto: Louise Nevelson. Successivamente incalzeranno tendenze come l'Arte Cinetica e la Op Art. continua una neo-figurazione impegnata (dove l'impegno si esprime con l'inserimento della silhouette di un soldato americano in Vietnam che osserva paesaggi e nature morte iperrealiste). Cominciano i primi happening e le fantasie sadomaso della Body Art.

Ci voleva molta forza morale e molta fiducia in se stessi per non farsi scalfire dal gioco delle inclusioni e delle esclusioni. Le mostre importanti erano, anche allora, monopolio di pochi critici e non era facile entrare nel "sistema" senza abdicare a se stessi… Pensa che si diceva con scherno: Tizio? Figurati… è uno che dipinge ancora col pennello!

Con questo stato d'animo, all'inizio degli anni Settanta, Simona affronta una sua rivoluzione privata. Separatasi dal marito ritorna a Roma e comincia ad insegnare discipline pittoriche come assistente di Giulio Turcato. Intanto convive con il poeta e critico Cesare Vivaldi. Come cambia il mondo che la circonda, così la sua pittura riparte da zero. Sono gli anni in cui riscopre che anche un quadro può gremirsi di segni, parole, oltre che di colori. All'inizio sono vere e proprie tavole su fondo nero in cui traccia i segni che mimano il graffito sul muro o quello sulla lavagna, dando ampio sfogo non solo all'inconscio dell'autrice, ma anche ai suoi sogni di bambina infelice. Racconta Simona che tra i quadri che più la emozionarono nella prima visita a Parigi (1971) ce ne fu uno di Picabia, folto di firme e frasi di amici, che in realtà quadro non era.
Dalle lavagne la pittrice passa alle pagine di quaderno in cui il segno infantile si alterna all'intervento esterno di un ipotetico insegnante. I primi critici a scrivere di questo ciclo sono, oltre a Vivaldi, Enrico Crispolti e Murilo Mendes.

Nel 1973 viene invitata alla X Quadriennale di Roma nella sezione non figurativa. Già aveva esposto nella galleria "Il Punto" di Remo Pastori a Torino e a Calice Ligure, guadagnandosi l'attenzione di importanti collezionisti torinesi. Nel 1974 viene segnalata al Premio Bolaffi da Giuliano Briganti, che pare fosse stato folgorato dalla sua sala al Palazzo delle Esposizioni di Roma.

Ora le sue opere nere, sorta di trompe-l'oeil di lavagne, si alternano a grandi tele colorate in cui una parola tracciata all'infinito si stratifica a formare una trama o tessitura. Le frequenti visite a Parigi, l'impatto con le ricerche degli Impressionisti, hanno profondamente colpito Simona. Per tracciare la parola chiave (erba, mare, alba, grano ecc.) l'artista usa un pastello ad olio. I colori tengono conto degli accostamenti divisionisti, la trama che ne risulta non è dunque mai una stesura piatta ma, osservata da lontano, crea un effetto straordinario di profondità. Simona Weller ha dunque ottenuto ciò che cercava: definire un paesaggio mentale con una parola dall'apparenza asemantica che riempendo l'area della tela diventa essa stessa quadro. Dopo questi risultati qualunque suo collega si sarebbe fermato. Invece la pressione del mercato (sono di questi anni i suoi primi contratti con i mercanti) la spinge a rinnovarsi, per crescere e raggiungere nuovi traguardi.

Pur non appartenendo a nessun gruppo, la Weller potrebbe storicizzarsi nell'area di un astrattismo lirico o meglio di una pittura scritta (e quindi di un informale segnico), si cerca invece di incasellarla forzosamente nella corrente della poesia visiva. Non a caso parteciperà a numerose mostre organizzate da Mirella Bentivoglio per questa tendenza. Questo equivoco verrà ulteriormente ribadito da Nello Ponente che, nella grande mostra del 1980 al Palazzo delle Esposizioni di Roma intitolata "Linee della ricerca artistica degli ultimi venti anni", inserirà la Weller nella sezione della poesia visiva. Per queste mostre Simona userà rigorosamente opere su fondo nero o bianco evitando ogni pittoricismo inviso ai poeti visivi. Ma questa inserzione forzata creerà molto disagio all'artista che non vi si riconosce anche perché non sa rinunciare a una pittura di colore. Una pittura che negli anni va trasformandosi tra scolature e cancellature. Finché, dopo uno studio concettuale sull'opera di Seurat, da cui prende, scompone e reinventa particolari tratti da La Grande Jatte, Simona lavora sulla tache. Macchie di colore che cancellano e ritmano la scrittura sottostante. Infatti, mentre all'inizio degli anni Settanta la scrittura si stratificava su se stessa, ora (siamo nel 1978) la scrittura serve da struttura per dare all'opera una solidità di costruzione.

Lorenza Trucchi, invitando nel 1978 la Weller al Palazzo delle Esposizioni di Roma per la manifestazione Arte-Ricerca, le permetterà di chiarire questo procedimento allestendo in una sala sia i particolari tratti da Seurat, dipinti su strisce orizzontali lunghe e strette, sia due grandi opere dedicate al mare: una solare e diurna, l'altra lunare e notturna. La sala si intitola: "Parafrasando Seurat, un pomeriggio di domenica all'isola… Tiberina".

Il messaggio è ironico, ma anche provocatorio per alcuni critici (promotori di una figurazione ad oltranza) che commenteranno: "Capiamo, ma non condividiamo".

Quest'atto di fede nella pittura che subisce colpi bassi dalle ultime tendenze di moda, verrà comunque premiato da un invito, nello stesso anno, alla Biennale di Venezia nella mostra "Dalla pagina allo spazio" che si terrà ai Magazzini del Sale. Per l'occasione Simona Weller comporrà in moduli quadrati di centimetri 50x50 l'idea di un "diario al muro" in cui ripercorrere le tappe della sua pittura scritta.
Con l'invito di Mirella Bentivoglio alla Biennale la Weller conclude un ciclo della sua ricerca.

Un giorno, nel suo studio di via Margutta 48 (che ha visto passare tre quarti dell'arte italiana del dopoguerra) sta incollando frammenti di vecchie tempere. Ritaglia le strisce della pittura che considera buona e le incolla su alcuni fondi su cui ha dipinto, come al solito, erba oppure mare. L'effetto di rilievo e di controluce che ne deriva è talmente interessante che sarà alla base di tutta la sua ricerca successiva. Non a caso Simona ci tiene a dire che la sua pittura è sempre cresciuta su se stessa.

Nei primi anni Ottanta, la sua ricerca subisce una nuova interessante impennata, dopo aver partecipato alla rassegna curata da Flavio Caroli e Luciano Caramel dal titolo "Testuale: le parole e le immagini" alla Rotonda della Besana a Milano. Una rassegna che (prima ed ultima) fa il punto sul fenomeno della pittura-scrittura attraverso i secoli.

Gli anni Ottanta si sono chiusi con la prima antologica di Simona Weller al Museo d'Arte Moderna di Macerata, dove il direttore Elverio Maurizi la invita e scrive per lei un impegnatissimo saggio. I primi vent'anni della sua storia pittorica hanno visto Simona impegnata su più fronti. Ha pubblicato un saggio fondamentale sulle artiste italiane del Novecento, ha partecipato a collettivi femministi e a mostre internazionali di artiste. Nella primavera del 1976 ha soggiornato qualche mese a New York dove ha frequentato alcuni artisti di punta (anche se molto lontani dalla sua tendenza) come Marcia Hafif, Robert Morris, Simone Forti. Ha incontrato anche il grande gallerista Leo Castelli che le consiglia di fermarsi a Soho, cercare un loft ed entrare a far parte della scuola newyorchese. Per questo esaltante futuro, Simona avrebbe dovuto abbandonare l'Italia, due figli decenni, un compagno amato, una cattedra di pittura, amici straordinari e la cultura di appartenenza.
Umanistica, europea, forse decadente ma "sua".

La breve esperienza statunitense le conferma però la qualità della sua ricerca e consolida la sua identità. Non si può confondere il mercato dell'arte con l'arte, afferma. Sempre in questo decennio Simona ha incontrato e fatto amicizia con i grandi vecchi dell'arte italiana: da Giuseppe Capogrossi a Giorgio De Chirico, da Nino Corpora a Giulio Turcato, da Toti Scialoja ad Alberto Burri, da Afro Basaldella a Mauro Reggiani. Per scrivere il saggio "Il Complesso di Michelangelo" ha incontrato anche Edita Broglio e Antonietta Raphaël, Carla Accardi, Titina Maselli, Adriana Pincherle, le sorelle Levi Montalcini e tante altre. Dai racconti e ricordi di tutti questi artisti si rinsaldano le sue convinzioni "romantiche".
Inoltre ogni anno, tra il '70 e l'80, da giugno a settembre, lavora in Liguria nel triangolo Finale Ligure-Calice-Albisola, dove tra gli altri incontra Andy Warhol, impegnato a scrivere la propria autobiografia mentre è ospite della gallerista svizzera Janneret.

Nel fervore delle estati liguri Simona comincia a lavorare la ceramica ed espone anche ad una mostra internazionale a Villa Faraggiana ad Albisola. Completerà le sue ricerche sulla ceramica lavorando, fino ad oggi, periodicamente nelle fabbriche di Deruta.

Con gli anni, la fluidità eccessiva della scrittura che riempie lo spazio della tela in un ossessivo horror vacui, diventa una rete in cui la creatività dell'artista si sente improvvisamente troppo costretta. Abbiamo già detto che la Weller aveva studiato Seurat, successivamente passa allo studio dello spazio cubista. Da Braque, Picasso, Severini, isola ancora particolari che fonde con frammenti del proprio vissuto e con reperti dei suoi vecchi quadri. Da queste composizioni nascono una serie di grandi pannelli su carta da scenografia che esprimono la suggestione di un'avanguardia storica ben assimilata e reinventata, sicuramente molto più matura e personale delle goffe influenze cubiste che subirono gli artisti intorno agli anni '50. Anche i titoli sono ispirati agli scritti di Gertrude Stein (vedi "Ode alle ciglia di una signora") mentre il testo critico verrà scritto con impegno da Palma Bucarelli e tradotto in olandese e tedesco per una mostra itinerante da Roma a Ferrara, da Amsterdam a Berlino, che avrà per titolo, ancora una citazione della Stein, "Il segno è l'esemplare parlato".

Una pittura colta dunque, di grande felicità espressiva. Anche in questo ciclo, comunque, compaiono composizioni su fondo nero che ricordano le antiche lavagne. Attribuisco al fatto che Simona cessi di scrivere dentro il quadro ad un nuovo passaggio avvenuto nella sua vita privata. In questi anni l'artista scrive libri, saggi e articoli. La scrittura è dunque tornata al suo posto sulla pagina di carta e la tela può dunque ricevere "altro".

L'invito alla Quadriennale del 1986, permette alla Weller un'ulteriore scatto in avanti. Il suo segno, o frammenti del medesimo, si trasforma in moduli macroscopici con l'apparente andamento di un'onda. In realtà, a ben guardare, questi segni altro non sono che frammenti di parole. Gli osservatori più superficiali, ignorando questi passaggi, leggono in questi segnali affinità con gli sbandieramenti di Balla. Ho sempre respinto questa associazione proprio perché ritengo che nei quadri della Weller resti viva la linearità della scrittura, non a caso da sinistra a destra. Da questo periodo in poi la pittura di Simona subisce una fase fortemente sperimentale con l'uso di materiali diversi, che raggiunge la sua punta più elevata intorno agli anni Novanta. Ecco apparire quadri in rilievo, telai a vista, squarci. Quasi che la tela e ciò che sulla tela è rappresentato subisse l'ingiuria degli elementi, del fuoco, dell'acqua, del vento. Nasce il ciclo di "Allegri naufragi" ispirato a quei celebri versi di Ungaretti che recitano: "E subito riprende il viaggio, dopo il naufragio, il vecchio lupo di mare…"

Una frase più che simbolica che rispecchia l'atteggiamento dell'artista verso la propria vita e la propria arte.
Ripercorrendo anno dopo anno la storia della Weller nel suo stretto rapporto con l'arte e documentandomi sulla sua ricca bibliografia, mi sono reso conto di avere oggi una grande responsabilità e privilegio. Poter trarre alcune conclusioni su un'artista che ha maturato negli anni, a dispetto di ogni terrorismo culturale, una propria identità autonoma e riconoscibile.

Resta comunque ancora valido ciò che scrisse Marisa Volpi nel lontano 1976 (Galleria San Fedele - Milano): "…il gioco sottile è tra il titolo che denuncia la sua semantica in senso letterario e la pittura che allude fisicamente alla natura… Natura e paesaggio che ormai rivelano la loro essenza simbolica come altro da sé, universo, ignoto, inconscio, nelle trascolorazioni infinite, dalla bellezza alla desolazione…" Ma soprattutto concordo con la Volpi quando scrive: "È sintomatico che tale aspetto dell'Astrattismo derivato all'Impressionismo, sia rimasto occultato dalle intenzioni puritane delle avanguardie storiche, in particolare del Costruttivismo, del Bauhaus e dei suoi derivati, che hanno voluto impostare il problema dello stile moderno, ed hanno quindi tentato in tutti i modi di eliminare il rapporto individuale con la percezione di sé e del mondo".
Ed è questo della percezione individuale il fulcro che, a mio parere, caratterizza maggiormente la lunga ricerca della Weller. La cui cultura linguistica, pur restando in rapporto con la tradizione formale del colore (da Seurat a Balla a Dorazio) riesce negli ultimi anni a stupirci con imprevedibili soluzioni espressive. Soluzioni che si avvalgono non solo del pigmento e della tela ma di materiali di recupero (cartone da imballaggio e legno usato). Un discorso a parte meriterebbe poi il lavoro svolto dall'artista sull'argilla modellata a mano in cui il suo segno si fa materia… Ma questo riguarderà un'altra presentazione.

In questa mostra, nella Galleria Giraldi (non a caso Bruno Giraldi è stato uno dei primi estimatori della Weller) vengono rappresentati per campionature quaranta anni di lavoro intenso e ricchissimo, che, pur ampiamente storicizzato, può ottenere un ulteriore e definitivo riconoscimento. Anche perché, come scrisse un giornalista per la sua antologica "Il Colore del Tempo" (Narni 1989), Simona Weller è sicuramente l'artista più importante e rappresentativa della sua generazione.

Roma, Giugno 2001